La Frontiera fragile tra noi e l’orrore

DI PAOLO RUMIZ – tratta da La Repubblica del 12 marzo 2022

Come soffia il vento sulla mia frontiera. Vento gelido di Nordest. Passa sulle trincee della Grande guerra, fischia nei rottami delle garitte jugoslave sull’ex cortina di ferro, si infila nelle fessure, toglie il sonno. Viene da lontano. Sa di steppe e di neve. Porta profughi a migliaia, ci frusta il viso. Ci avverte che ogni diaframma è saltato tra noi e gli spazi sterminati che hanno inghiottito le armate di Hitler e Napoleone. C’è un’invasione, l’Europa è in allarme. Ma è dal ’14 che l’Ucraina è in guerra. Dov’era la politica in questi otto anni? Pensava ad altro: ai rifugiati, al Covid. E noi per anni abbiamo vissuto di emergenze in una sequenza monotematica che ignorava il resto del mondo. Ora c’è l’Ucraina, e anche l’Ucraina cancella tutto il resto fino a quando un nuovo allarme mondiale la sostituirà. La pandemia continua, ma non è più un tema. Avanti così, in una rete di amnesie che ci espone a bruschi risvegli. 
Oggi dal silenzio dell’indifferenza siamo precipitati nel frastuono delle “Breaking news” che alzano il livello dell’ansia ma non aiutanoa capire. Per otto anni abbiamo dormito, come i governanti che nel 1914 hanno dato il via al massacro mondiale in uno stato di ebete sonnambulismo. Ciechi e muti, come a Srebrenica, dove eravamo complici. Oggi c’era dalla nostra un leader finalmente presentabile come Zelensky, ma non abbiamo colto l’occasione, e ora ne subiamo le conseguenze Ci muoviamo ancora in ordine sparso, uniti solo da un’isteria maccartista da analfabeti contro un grande popolo vittima di un autocrate. Questo, mentre le badanti russe e ucraine in Italia pregano per la pace nelle stesse chiese, leggono insieme Dostoevskij e insieme cantano nella cripta di San Nicola a Bari. Sanno che i loro due popoli, un po’ come Miroslav Krleža disse con autoironia di Serbi e Croati, sono «lo stesso letame diviso in due dal carro della storia». 
Ora parlano i kalashnikov. Un giovane musicista ucraino posta su whatsapp la foto di un lanciagranate puntato sulla strada da una finestra e scrive: «Avevo comprato una tromba per far musica, ma Dio ha deciso diversamente e mi ha regalato questo meraviglioso strumento che mi dice: “Forza, suonami!”. E io lo sto suonando». Maksim, chiamiamolo così, ha lavorato nell’orchestra sinfonica europea alla quale ho prestato la voce narrante. Gli abbiamo scritto: «lascia stare Dio, che non c’entra. È da irresponsabili mettere in mano a un civile uno strumento simile. La guerra falla fare ai soldati. La tua battaglia è in musica, per il tuo Paese e per l’Europa». Risposta: «La guerra non è stata una mia scelta. Io volevo suonare, ero pronto a partire per dei festival. Ora non posso fare altro che combattere per la patria o morire. Pregate per la mia terra». 
Anche nel più mite degli ucraini si agita un cosacco, e Maksim ci ricorda che è tardi per la politica e la diplomazia; che non è più il tempo dei distinguo, perché la guerra disattiva la dialettica e il pensiero complesso. Non serve dirgli che nei tank che assediano la sua città vi sono giovani di vent’anni che soffrono a eseguire gli ordini, perché Russi e Ucraini sono, a milioni, imparentati fra loro. Inefficace farlo ragionare sul fatto che la sua scelta renderà più pesanti le perdite fra i civili. Inutile farlo riflettere che questa è una strana invasione, se lascia aperti dei confini, non tocca le reti telefoniche e consente a dei treni di andare. O che tra le forze ucraine vi sono formazioni come il Battaglione Azov, noto per le torture ai civili russi nel Donbass. Miserabili sfumature, di fronte all’enormità di un’aggressione. 
Dalla mia casa di campagna vedo passare gli ucraini in fuga che accogliamo a braccia aperte e, a poca distanza, nei boschi, i poveri cristi da Siria e Afghanistan che nessuno vuole. Nella corrente alternata della solidarietà, i secondi non sono più di moda. Peggio: aiutarli è ancora un crimine, secondo la legge Salvini che il nuovo governo non ha mai abrogato. I loro paesi li abbiamo bombardati anche noi, ma puniamo egualmente questi migranti con un’avversità razziale che non ci rende così diversi da Polacchi e Ungheresi. Li lasciamo morire di gelo sulla frontiera bielorussa o marcire nei gulag turchi, greci, bulgari. Cinque milioni di profughi che non vogliamo vedere perché non sono biondi e non hanno gli occhi chiari. 
La mia frontiera è un sismografo che registra ogni scossa anche a migliaia di chilometri. Da quando sono nato, non ho fatto che veder genti in fuga da guerre, pulizie etniche o carestie. Istriani, Dalmati, dissidenti Jugoslavi, Curdi, Bosniaci, Iracheni, Afghani, Siriani e ogni genere di popoli africani. Una processione dolente, interminabile, che continua ad arrivare da Est o da Sudest per confluire nello stesso punto. Una sola cosa non avevo mai visto: che su questa linea ci fosse chi ha diritto alla vita e chi può anche crepare. Tu sì, tu no. Due file, come ad Auschwitz. Difficile dormirci sopra. 
Vado a far legna nel bosco per… non finanziare la Gazprom. Un modo vigliacco per nascondermi, non pensare al tramonto dell’Europa e sfuggire alla vergogna. O per sparire da questo mondo ipercontrollato dove la libertà è morta e la pietà pure. Fa freddo e la stufa inghiotte intere cataste. Intanto, la macchina delle armi va avanti lo stesso. Da decenni finanziamo il riarmo di Putin comprando il suo gas e, pur di avere il culo al caldo, abdichiamo dai principi fondativi della nostra democrazia. Cecenia? Anna Politkovskaja? Tutto dimenticato. Meglio sorseggiare aperitivi, guardare Netflix e intanto delegare alla sola America la nostra difesa, senza integrare il pensiero atlantico con una visione mediterranea. Eppure mai come ora è tempo di esportare la democrazia in un altro modo, senza erodere gli spazi cuscinetto fra noi e la Russia e senza far danni irrimediabili come a Kabul, dove siamo stati cacciati a pedate da un’orda di guerrieri scalzi. 
Ero a Leopoli nell’inverno del 2014, durante la rivolta di piazza Maidan a Kiev. Fu subito chiaro che il popolo non si era sollevato contro i Russi, ma contro i corrotti. Una rivolta civica, nata dalla nausea per gli eccessi di un governo di ladri. In piazza Maidan la fertile Ucraina, granaio d’Europa, si chiedeva le ragioni della sua povertà e le trovava nella corruzione della cleptocrazia post-comunista. Ma appena il governo fantoccio del Cremlino è caduto a furor di popolo, la nomenclatura, con la tipica, collaudata giravolta che s’era già vista in Jugoslavia o con la caduta di Ceausescu in Romania, ha ordinato ai servizi segreti di trasformare la rabbia politica in uno scontro etnico, per non pagare il conto del suo fallimento. Ammazzatevi fra voi, idioti, invece di discutere il potere. 
L’Ucraina è lontana da Washington. L’Europa occidentale no, non può permettersi di ignorarlo. L’Ucraina è Europa. Per certi aspetti ne è il baricentro. «Ucraina vuol dire frontiera, terra di mezzo», mi ricordò già nel 2008 in una stazione fra Leopoli e Odessa uno studente di medicina. Detestava Putin, ma aggiunse: «Se il mio Paese smette di essere ciò che è stato per secoli, cioè uno stato cuscinetto, per entrare in un’alleanza occidentale, succede il putiferio e Mosca interviene». Ripenso spesso a quell’incontro di quattordici anni fa, fatto in un viaggio per Repubblica. Chiunque ha un briciolo di memoria sa che la fascia di territorio fra i Balcani e il Baltico è anche una linea di faglia altamente infiammabile, una Blood Land,come l’ha definita Timothy Snyder, dove Est e Ovest non hanno ancora risolto le loro pretese imperiali e dove il fango ha inghiottito sessanta milioni di vite in una successione di tragedie lunga un secolo. Non possiamo consentire che si incendi ancora. 
Oggi per la prima volta dal ’45 la guerra non è più una cosa che riguarda gli altri. Stavolta, più che con la guerra jugoslava, ci sfiora l’idea che potremmo diventare profughi anche noi. 
Sarebbe un peccato scoprire solo quando è tardi il sapore dolce della pace

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La pace, vogliamo solo la pace!

In guerra non ci sono né vincitori né vinti così come la verità è la prima vittima. Non possiamo schierarci facendo solo affidamento sulle notizie che i media ci forniscono; comprendere e mediare dovrebbero essere i verbi. Quanto siamo ipocriti quando l’articolo 11 della Costituzione afferma che l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali e invece siamo pronti a votare quasi all’unanimità in Parlamento per l’invio di armi e munizioni in Ucraina. Quegli stessi politici hanno il coraggio di scendere in piazza a manifestare contro la guerra. Questa è contraddizione. Non solo… l’Europa, culla del colonialismo, permette ancora oggi in una guerra non dichiarata che migliaia di immigrati anneghino… Il nostro mare è ormai un cimitero. La Libia continua ad essere pagata per bloccare chi fugge da guerre, povertà e violenze costringendo donne, uomini e bambini a vivere nei campi lager.

E ancora… Quanto siamo ipocriti quando nelle trasmissioni televisive parliamo preoccupati della guerra in Ucraina ma dietro le quinte definiamo cameriere, badanti e amanti le migliaia di donne ucraine che vengono in Europa per lavorare.

La storia ci insegna che nel 1991 a Bonn, Usa, Germania, Francia e Gran Bretagna firmano un accordo di non espansione della Nato nei paesi dell’Est Europa ma già nel 1999 Ungheria, Repubblica Ceca e Polonia entrano nella Nato; nello stesso anno i paesi del Patto Atlantico (Nato) attaccano la Jugoslavia ridisegnandone i confini. Attacco, è bene ricordarlo, non approvato dall’ONU, l’Organizzazione delle Nazioni Unite che ha l’obiettivo di mantenere la pace e la sicurezza nel mondo. 

Da allora ad oggi altri Stati come Slovacchia, Slovenia, Romania, Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Croazia, Albania, ecc., sono stati annessi alla NATO con la conseguenza di concederle di installare basi missilistiche nucleari tutte puntate su Mosca.

Da quando è iniziato il conflitto Russia – Ucraina abbiamo assistito a discussioni da bar pro e contro l’una o l’altra nazione perdendo di vista l’obiettivo finale che è quello della pace, del cessate il fuoco. Siamo a favore dei corridoi umanitari ma siamo contrari all’invio di armi e militari che non fanno altro che fomentare l’odio, la guerra e la morte di tanti innocenti di entrambi i fronti.

In Italia le spese militari sono aumentate notevolmente e siamo al decimo posto tra i paesi esportatori di armi. I 26 miliardi di euro stanziati si sarebbero potuti investire in modo costruttivo per scuola, sanità e ambiente. 

Siamo così presi da questa nuova guerra che non pensiamo ai tantissimi conflitti in atto nel mondo: cosa rende così speciale l’attacco russo all’Ucraina rispetto agli attacchi della Turchia al popolo curdo? Perché non parliamo degli attacchi di Israele alla Palestina? Perché non abbiamo mai pensato a creare dei corridoi umanitari per i popoli dell’Africa, Birmania, Afghanistan, Cecenia, Iraq, Siria, Yemen… 

Al di là delle sanzioni economiche, che acuiscono il divario sociale, chiediamo che tutte le diplomazie lavorino per l’immediato cessate il fuoco, per una pace duratura e per la ricostruzione immediata delle zone colpite. 

Occorre un segnale forte di responsabilità da parte di Putin e Zelensky e che la Nato faccia un passo indietro. Non è proprio tempo di provocazioni!

La Segreteria Provinciale Fisac/CGIL Brindisi

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Banca MPS e BNL. Esuberi ed esternalizzazioni.

La Lotta continua


Il 24/09/2021 i lavoratori di MPS hanno scioperato.
L’azienda, per usare un eufemismo, è in crisi dal 2013. Dopo una serie di piani industriali caratterizzati solo da tagli al personale e chiusure di filiali, i dipendenti si sono ritrovati a vivere una situazione a dir poco paradossale: dai mass media sentivano parlare di acquisizione da parte di Unicredit o di ipotesi ‘spezzatino’ mentre né il MEF né il management della Banca si esprimevano in merito; il Tesoro, azionista di maggioranza, doveva fare chiarezza e coinvolgere i lavoratori nelle trattative. L’adesione allo sciopero è stata altissima; poi, il silenzio. Si è saputo soltanto che la trattativa con Unicredit, quindi esisteva una trattativa, era saltata.
A novembre Guido Bastianini, amministratore delegato dell’Istituto senese, è tornato a parlare di esuberi nella sua relazione davanti alla commissione d’inchiesta sulle banche: in 4 anni potrebbero uscire 2.500 persone oppure in 5 anni potrebbero uscire circa 4.000 persone. L’operazione, da svolgersi previo accordo con i Sindacati e su base volontaria avrà un costo di 950.000 euro e, dal 2026, comporterebbe un risparmio di 315.000 euro all’anno. Dopo la trattativa saltata tra il Tesoro e Unicredit, ha aggiunto, occorre mettere Montepaschi nelle condizioni di camminare sulle proprie gambe e poiché la banca opera in un regime di aiuti di Stato, bisogna eliminare le parti non profittevoli. Poi, di nuovo, il silenzio. 
Visto che si continua a percorre la tanto facile quanto deleteria soluzione dei tagli al personale, l’ipotesi di portare gli esuberi fino a 4.000 appare addirittura ottimistica.


I dipendenti BNL di scioperi ne hanno organizzati due, il 27/12/2021 ed il 24/01/2022, entrambi caratterizzati da un’ampia adesione. 
Hanno scioperato contro il progetto di esternalizzare 900 lavoratrici e lavoratori che dovrebbero passare ad una NewCo di proprietà della Capgemini. Il nuovo piano industriale prevede inoltre la chiusura di 135 agenzie con tutto ciò che ne conseguirebbe: impoverimento del territorio, demansionamento e mobilità funzionale e geografica. Paradossale il fatto che BNL, quest’anno come negli anni precedenti, non abbia un bilancio in perdita; il progetto di cessione di ramo d’azienda viene portato avanti esclusivamente nel nome di un maggior profitto. La stessa banca che si è complimentata con i dipendenti per il contributo fornito sta ora chiedendo loro di firmare una dichiarazione di rinuncia ad azioni legali. 


Proclamare uno sciopero non è mai semplice: la ragione dovrebbe portare a ricercare sempre un punto d’incontro tra i diritti dei lavoratori e le esigenze aziendali. Sempre più spesso invece le aziende assumono decisioni senza neppure avviare un doveroso e preventivo confronto. Le banche, in particolar modo, attuano pressioni commerciali, frammentano i processi, non garantiscono le dovute misure di sicurezza ed un corretto utilizzo dello smart working, mirano a fiaccare e far sentire soli i lavoratori con l’antico metodo “divide et impera”. 
Anche se scioperare comporta sacrifici, non bisogna rinunciare a far sentire la propria voce. I licenziamenti GKN o l’esternalizzazione di dipendenti MPS in Fruendo si sono conclusi con la condanna delle aziende a reintegrare i lavoratori e al pagamento dei danni loro cagionati. Nonostante i momenti di sconforto, bisogna prendere coscienza di non essere soli e di essere destinati a vincere contro chi vuol calpestare i diritti dei lavoratori. Bisogna continuare a lottare!

Dipartimento Comunicazione Fisac/CGIL Brindisi

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BNL: un successo di sciopero!

Il 24 gennaio 2022 si è tenuta la seconda giornata di sciopero nazionale dei dipendenti BNL- Paribas

Pubblichiamo il link alla pagina della Fisac/CGIL nazionale dove sono riportati i collegamenti a podcast, articoli e video della manifestazione di Firenze.

Dipartimento Comunicazione Fisac/CGIL Brindisi

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Per non dimenticare

La giornata della memoria.

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La storia delle Lotte Operaie

Le lotte operaie per le tutele e la libertà sindacale: dallo Statuto dei lavoratori alla Carta dei diritti. 

Le conquiste legislative dagli anni 70 e il ruolo del movimento sindacale. 

Lo scorso 4 novembre a Bari, nell’aula A. Moro del Dipartimento di Giurisprudenza, si è svolto un seminario con tema “Le Lotte operaie per le tutele e la libertà sindacale: dallo Statuto dei lavoratori alla Carta dei diritti.” Docenti universitari, ricercatori, sindacalisti e rappresentanti delle imprese hanno ripercorso le conquiste legislative dagli anni 70 e il ruolo del movimento sindacale per giungere poi a delle conclusioni politiche. 

Introduce i lavori il Prof. Roberto Voza, diritto del lavoro, parla di Statuto di perdurante attualità nonostante abbia compiuto mezzo secolo.  

Parla della nascita dello Statuto, di Pane e Libertà, di Giuseppe Di Vittorio e di Aldo Moro Presidente del Consiglio ed ama sottolineare le loro origini pugliesi.

Il compito di docenti e studiosi, aggiunge, si nutre del dialogo con le forze sociali.

A parlare è poi la Dott.ssa Francesca Abbrescia, vicepresidente della Fondazione Maierotti, che anticipa alcuni temi che verranno sviluppati nel corso del seminario durante il quale verranno proiettate alcune interviste/testimonianze ai lavoratori di quel periodo.

Ricorda con orgoglio un altro seminario, tenutosi l’8/7/2021 ad oggetto “Lotte del bracciantato pugliese”. 

Descrive la ricerca come strumento per offrire spunti di riflessione ai decisori politici. 

In merito al seminario in corso inizia con una domanda: “Cos’era il lavoro prima e dopo lo Statuto?”. Passa poi ad un excursus storico i cui temi si possono così sintetizzare: 

– 1952. La celebre frase di Giuseppe Di Vittorio “La Costituzione deve entrare in fabbrica”;

– 1960. Si fa strada il concetto “meno centralismo, più contrattazione decentrata”;

– 1968 – 1969. Sono gli anni del movimento giovanile e del movimento sindacale;

– 1970. La cultura giuridica insieme con i movimenti di massa portano allo Statuto dei lavoratori.

Ricorda che lo Statuto si applicava alle imprese industriali oltre 15 dipendenti e, da questo punto di vista, poteva definirsi incompiuto. 

Si interroga infine su cosa abbiamo bisogno oggi. Certamente di una legge cha abbia le caratteristiche di Legge costituzionale sulla contrattazione inclusiva, di una legge sulla rappresentanza; una legge sul lavoro sicuro, dignitoso, adeguatamente retribuito. 

È il turno del Prof. Vito Sandro Leccese, docente di Diritto del Lavoro all’Università di Bari, che parla di progettualità: modernizzazione dello Statuto, sostenibilità sociale/ambientale, lotta alla povertà, digitalizzazione. 

Parla di nuove minacce, una delle quali è la deresponsabilizzazione in materia di sicurezza, e di affrancamento dal ricatto occupazionale.

Invita a rinvenire sulla cineteca Rai un intervento sull’art. 36 della Legge 300 di Gino Giugni, che ha ricoperto un ruolo chiave nella stesura della stessa. 

Conclude affermando la necessità di una definizione dei perimetri dello Statuto. 

Segue un breve collegamento con Loredana Capone. La Presidente del Consiglio della Regione Puglia si esprime su:

  • sicurezza sul lavoro, ne va della vita;
  • ricerca di qualità;
  • parità salariale;
  • condivisione quale condizione indispensabile quando si vogliono cambiare realmente le cose.

Gli interventi lasciano poi spazio, per un po’, alle “storie operaie”: si tratta di interviste, di testimonianze rilasciate da chi ha lavorato prima e dopo lo Statuto. 

Si inizia con le tabacchine del Salento che parlano di ritardi nella ricezione della paga, di come il “padrone” aspettasse che le venisse richiesta più volte, quasi fosse un’elemosina. Ma c’era chi non si piegava, lavorava il triplo ed intanto si creava il gruppo.

Seguono testimonianze su scioperi, vita sindacale dei metalmeccanici, il lavoro nelle acciaierie in Puglia.

Si ricorda una solidarietà di classe che oggi non esiste più.

Riprendono gli interventi. Antonio Colella, rider di Just Eat ed Rsa della FILT Cgil di Bari, condivide la propria esperienza personale, di come ritenesse ovvi diritti per i quali invece lui ed i compagni hanno dovuto lottare.

È il turno poi del Prof. Vincenzo Bavero, docente di Diritto del Lavoro dell’Università di Bari.

Parla di inchiesta sociale cioè di come sia importante intervistare chi lavora. 

Le contraddizioni, dice, hanno cambiato forma ma sono ancora presenti nei settori economici – produttivi.

Le innovazioni, continua, hanno sempre determinato dei costi e si domanda se sarà così anche per la digitalizzazione. I sindacati devono entrare dentro questo processo assumendo un ruolo di governo nell’assetto produttivo – organizzativo. Non deve più succedere che il problema sia quello di contrastare decisioni già assunte (es. GKN) ma di come partecipare alla decisione, rivendicare il potere di dire la propria su come e cosa si produce. Ad esempio: Come si sta dentro al mercato globalizzato? Come si sta dentro alla competizione?

Necessita, infine, un’assunzione di responsabilità da parte delle imprese.

Seguono altre video testimonianze sul lavoro a cottimo, sugli scioperi e sui consigli di fabbrica.

Per molti lavoratori il sindacato, le lotte e le assemblee, hanno rappresentato un modo per crescere anche al di fuori del lavoro. Grazie alla loro omogeneità, forza e solidarietà, ottennero il potere di validazione delle scelte aziendali.

La parola passa poi al Prof. Michele Capriati, Docente di Politica Economica all’Università di Bari.

Spiega che i diritti generano sviluppo e che lo sviluppo va misurato sulla scorta dell’ampliamento dei diritti. 

Parla di diritto al lavoro e del lavoro come quel luogo dove si dà il meglio di sé.

Consiglia la lettura del libro Agathotopia di James Meade, Premio Nobel per l’Economia. Il libro, del 1990, è sorprendentemente moderno. Ce ne riassume alcuni passaggi: 

  • l’importanza di un reddito minimo (oggi diremmo di cittadinanza) e di salario minimo (che dovrebbe valere tre volte il suddetto);
  • il Capitale che usa una posizione di ultra-forza per riversare sui lavoratori il rischio di impresa;
  • non bastano risposte difensive. Lo Stato deve intervenire con tassazione maggiormente progressiva; deve venire in possesso del 50% del capitale nazionale procurandosi le risorse per un dividendo sociale;
  • i lavoratori devono entrare nell’azionariato delle imprese e devono avere un ruolo centrale nella definizione delle strategie di impresa.

È il turno poi di Riccardo Figliolia, Segretario generale Confimi Industria Puglia

Porta, ci spiega, il punto di vista degli imprenditori diversi dai giganti. Parla delle imprese a conduzione familiare dove il confine tra lavoratore e membro della famiglia è sottile.

Queste piccole aziende possono crescere sviluppando la comunicazione per farle conoscere.

Sono realtà in cui impresa e sindacati possono compiere degli sforzi comuni. 

Lavoratori ed imprenditori devono allearsi contro la globalizzazione.

Giunge il momento delle conclusioni politiche. 

Davide Franceschin, Segretario nazionale di NIdiL Cgil fa una riflessione su come l’esperienza del consiglio di fabbrica oggi sia impensabile. Prima, tutto rientrava nel contratto collettivo ed il datore di lavoro era facilmente riconoscibile. Oggi il ciclo produttivo è stato scomposto. Obiettivo della CGIL è infatti la ricomposizione ma intanto ogni consiglio rappresenterebbe molti meno lavoratori. Aggiunge che l’unità dei lavoratori all’epoca comportò la nascita di leggi importanti mentre oggi i lavoratori si fanno concorrenza tra di loro.

Si domanda poi cosa si potrebbe fare oggi. Si potrebbe rappresentare i disoccupati (un ambito variegato), gli autonomi, i lavoratori occasionali (spesso altamente professionalizzati) ed i cosiddetti somministrati.

Riporta alcune sperienze dal mondo del lavoro.

Amazon in Italia ha 10.000 dipendenti diretti e 12.000 in somministrazione più i driver.

Grazie ad una vertenza, portata avanti insieme con la FILT, si è giunti ad un accordo quadro. In questo caso ricomporre il mercato del lavoro ha premiato.

Parla poi in particolare dei riders. Alcuni sono divenuti lavoratori subordinati e quindi hanno ottenuto il diritto di assemblea. Altri si sono prima organizzati tra di loro e poi si sono rivolti alla CGIL.

Rispetto ai contratti di somministrazione, dice poi, la cosa più difficile è capire quale sia la controparte con cui trattare. 

Conclude affermando come sia importante capire i cambiamenti. 

Vi è infine l’intervento di Filomena Principale, Segretaria confederale della Cgil Puglia. 

Si è emozionata nel guardare le testimonianze e parla della sua esperienza di dipendente pubblica dove lo Statuto è stato introdotto nel ’90.

Parla di valore sociale del lavoro, del valore dello Statuto, della spinta all’impegno sindacale dei dipendenti pubblici e del valore della partecipazione statale nell’economia.

Fa l’esempio di come sia stato affrontato il problema Covid dove il sindacato ha avuto un ruolo importante nel mantenimento dell’occupazione. 

Il lavoro, aggiunge, continuerà a diversificarsi e servirà un sindacato abile ad accompagnare nella transizione ed aggiornare le tutele. Si pensi ad esempio allo smart working ed allo sviluppo sostenibile.

Occorrono coesione sociale, collaborazione lavoro pubblico e privato, conoscenza, dialogo e combattere la precarietà.

È stato un seminario dai ritmi serrati, una grande esperienza formativa. 

Lo si può riguardare sulla pagina YouTube della CGIL Puglia in un video intitolato “Le lotte operaie per le tutele e la libertà sindacale: dallo Statuto alla Carta dei diritti”.

Danilo Gianniello- Segreteria Comprensoriale Fisac/CGIL Brindisi

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SCIOPERO IN BNL

Oggi sciopero in BNL-Paribas. Le lavoratrici e i lavoratori lottano contro il tentativo aziendale di esternalizzare, violando palesemente la legge, pezzi di attività e centinaia di lavoratori. Si lotta contro una scelta padronale che mira, come al solito, a fare più utili stracciando i diritti dei lavoratori e peggiorando il servizio alla clientela. Non passeranno!

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SCIOPERO GENERALE PER L’EQUITA’

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Strappare lungo i bordi

Strappare lungo i bordi. La travolgente serie Netflix di Zerocalcare.

In sei episodi mozzafiato da venti minuti scarsi ciascuno, Michele Rech, giovane fumettista di successo meglio conosciuto come Zerocalcare, condivide alcune esperienze della sua vita.

Il titolo è una metafora della vita stessa. Da bambini facevamo un gioco: su un foglio vi erano figure che potevano facilmente staccare strappando lungo linee tratteggiate in parte pretagliate. La vita non è così semplice perché frequenti sono gli strappi e le cicatrici. Ad esempio, non è facile trovare un lavoro gratificante ed è quasi impossibile fare quello che si sogna da piccoli. Lo hanno scoperto anche Zero ed i suoi amici Sarah, Secco e Alice. 

Tra immagini e dialoghi incalzanti Zero butta fuori tutto il suo sentire. Perché così veloce? Forse perché è la vita stessa a scorrere veloce o forse perché certi ricordi, se raccontati lentamente, fanno male. 

Zero dialoga continuamente con la sua coscienza a cui, da grande artista qual è, da persino un volto. Viene voglia di confrontarsi con la propria. Chissà che sembianze avrebbe. 

Dopo un’ora e mezza vorrete solo riguardarlo tutto da capo per coglierne tutte le sfumature. Fatelo!

Dipartimento Comunicazione Fisac/CGIL Brindisi

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GRANDE E’ BELLO?

Nel settore creditizio italiano è in atto un ennesimo progetto di riorganizzazione sia patrimoniale che strutturale. Ormai da alcuni anni il principio che ne detta i processi è basato sul motto “grande è bello”. Molti istituti bancari di dimensioni importanti sono stati acquisiti da partner ancora più grandi sia a livello dimensionale che patrimoniale. E sono stati, di fatto, cancellati dal panorama territoriale. In queste ultime settimane il sindacato è impegnato in due processi molto importanti: l’esternalizzazione di un ramo d’azienda della BNL che comporterebbe una fuoriuscita dal perimetro creditizio di circa 1.000 lavoratrici e lavoratori e la nota vicenda dell’acquisizione del MPS da parte di Unicredit. La prima questione è come al solito fondata su una violazione della legge poiché l’esternalizzazione di un ramo d’azienda prevede come base la sua effettiva autonomia finanziaria e organizzativa. (1) Cosa che nella BNL è molto lontana dal vero. Per cui si tratta di una ennesima operazione illegale il cui obiettivo è la forte contrazione del costo del lavoro a danno dei diritti e del salario dei dipendenti. La vicenda del Monte ormai è nota: Unicredit si era resa interessata ad acquisire un perimetro definito di attività della banca con il solo obiettivo di ottenere un incremento di valore da distribuire agli azionisti come maggior dividendo. 

Quello che invece interessa noi, sindacato, è andare a ficcare il naso in queste operazioni per tutelare le colleghe e i colleghi interessati. 

Quale sarebbe l’impatto sociale di queste operazioni, quali sarebbero le ricadute sui dipendenti, sui territori, sulle comunità colpite direttamente o indirettamente da queste acquisizioni con tutto ciò che esse comportano?

Siamo sicuri che il motto “grande è bello” sia giusto e che questo sia l’obiettivo che il management bancario deve perseguire in questo contesto economico e sociale? Ci troviamo nel pieno di una nuova era storica definibile come “pandemica” e bisogna chiedersi quale sia il ruolo sociale del credito in questo momento.

Circa un anno fa, nel momento in cui l’Unione Europea aveva finalmente deciso di abbandonare la linea del rigore e sposare una linea di espansione con un diverso utilizzo delle risorse finanziarie comunitarie, noi avevamo seguito con speranza e attenzione le linee guida di questa nuova politica: la tutela dell’ambiente e la riconversione ecologica della produzione, una spinta verso la tecnologia e l’innovazione, il potenziamento del Welfare sociale con una particolare attenzione al finanziamento della sanità pubblica e della scuola pubblica, il finanziamento della ricerca.

Queste dovevano essere le linee guida che in Italia avrebbero dovuto ispirare l’ormai mitico PNRR, il Piano nazionale di Ripresa e Resilienza. In questo Piano il ruolo sociale delle banche e delle politiche creditizie avrebbero dovuto avere un ruolo centrale per mettere a disposizione le competenze creditizie al fine di spingere con forza lo sviluppo economico e sociale del paese.

Invece ci ritroviamo ancora una volta a dover fronteggiare uno spirito da pirati di un management bancario che intende approfittare della situazione per procedere ad una fortissima razionalizzazione della rete sportellare in Italia e ad un espulsione di migliaia di lavoratrice e lavoratori del credito dal processo produttivo.

Le conseguenze di queste politiche sono un forte aumento degli utili delle banche, cosa che sta già venendo da alcuni anni nonostante la crisi, l’emarginazione di intere comunità dal poter usufruire dei servizi delle filiali spingendo ad una migrazione verso la rete di Poste Italiane e infine un probabile cartello che imponga alla società e all’economia costi molto alti per accedere ai servizi creditizi.

Noi siamo contrari ad uno scenario di questo tipo. Ha fatto bene il MEF a rifiutare le proposte di Unicredit e ci attendiamo una sponda politica e sociale ad un nuovo Piano industriale del Monte che lo spinga definitivamente fuori dalle secche della crisi e che sia un piano di sviluppo del personale. Ci attendiamo che l’operazione in BNL sia bloccata poiché, come detto sin dall’inizio, è un’operazione spudoratamente illegale.

Il sindacato c’è e svolgerà fino in fondo il suo ruolo.

Dipartimento Comunicazione Fisac/CGIL Brindisi

Nota: (1) La nozione di ramo di azienda ai fini dell’applicazione dell’art. 2112 c.c. deve ricavarsi dalla giurisprudenza europea, dalla Direttiva n. 2001/23/CE e dalle altre norme europee in materia in base alle quali sono da considerare quali imprescindibili elementi di individuazione del ramo la preesistenza di una entità stabile organizzata in grado di fornire un servizio economicamente utile a qualcuno senza rilevanti apporti esterni e il trasferimento di anche solo una parte di tale entità, che però ne rappresenti l’essenza in termini di utilità funzionale ed economica. (Trib. Roma 5/3/2018, Est. Conte, in Riv. it. dir. lav. 2018, con nota di G. Gianni, “Le norme e la giurisprudenza europee non giustificano una interpretazione restrittiva della nozione di ramo d’azienda”, 658)

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